Azzurro tenebra

[1977]

Germania 1974: sono passati 4 anni dallo storico Italia Germania 4-3 e la Nazionale si prepara al Mondiale in una fiabesca “casa di bambole”, imbottita di “ruote di formaggio grana, unguenti e acque minerali patrie, […] astuzie di dirigenti, congiure di centravanti, alibi di campioni al tramonto.” L’inviato speciale “Arp” frequenta il ritiro di Ludwisburg e sente “odore di disfatta” al punto di coniare la tonalità di colore “Azzurro tenebra”. La descrizione romanzata di una disfatta che si avvererà in una clamorosa eliminazione al primo turno in un girone non impossibile con Haiti, Argentina e Polonia.

Un romanzo dove tutto è portato all’estremo: i temporali, le sbronze e la febbre in un clima infernale con “Troppa acqua, troppi grigi, troppi alberi che sgrondavano fiaccati dalla pioggia”. Così come pare di sentire il calore degli spogliatoi, il ticchettio delle macchine da scrivere ed il fumo delle sale stampa. Azzurro tenebra è al tempo stesso un romanzo sull’epica del calcio e sui vizi italici, ma come in un’antologia tra le sue pagine emergono riflessioni sull’amicizia e sul ruolo del giornalista, sullo scorrere del tempo ed il tema del ritorno a casa.

La verità sul calcio è racchiusa in “quell’erba deserta” ed “in quei fili compatti, che assorbivano il trascorrere del tempo”. Nell’atmosfera dello stadio “gonfio di bandiere, di strepiti e gesti e trombe e occhi lucidi” e nell’adrenalina degli inni nazionali “con gli uomini delle due squadre allineati immobili come bersagli d’un tirassegno”. Al Neckarstadion di Stoccarda “tutto pareva svolgersi in un caleidoscopio impazzito”.

Dolceamari i commenti sul nostro Paese: “un paese matto però temibile se difende una palla”, con la consapevolezza che “il mondo è stufo di noi” e che “Dici Italia, e tutti ti guardano come se fossi piovuto dalla luna. Per sbaglio, naturalmente.” La schiera di giornalisti al seguito è suddivisa in maniera quasi fantozziana tra le Jene “perennemente in tensione per lanciare lo scandalo, sfruttare l’episodietto maligno, lo spiraglio equivoco” e le Belle Gioie, “fiduciosi, patriottici, pronti a dare la colpa agli avversari, all’arbitro, al cattivo tempo, alla malasorte, al demonio.”

Taglienti i dialoghi tra l’autore ed il “Vecio”: Enzo Bearzot, all’epoca allenatore in seconda, che “ostentava la maschera sorniona di un pugile in guardia perenne”. Sincera l’amicizia con il “Capitano”: Giacinto Facchetti, che gli chiederà di fare da padrino di battesimo al figlio ed a cui “Arp” raccomanda che “la vita è nostra. Bisogna saper essere impiegati di se stessi. Lo diceva l’Alfieri”.

L’arco di tempo della partita si trasforma in un momento di sospensione tra passato e futuro: “Il caleidoscopio subì una rotazione vertiginosa” e “Arp ingollò quella porzione di tempo in corsa e anche i minuti secondi ancora da nascere, ancora racchiusi nel grembo dell’avvenire.” Il presagio della sconfitta porta con sé l’amarezza “perché vinceremo un bel niente […] in nessun campo, perché nessun uomo più è nato per vincere, tutte le statue di tutte le Vittorie hanno ali, braccia, teste mozze, tutte ammuffiscono negli scantinati di musei all’abbandono, ogni sfida è finita.”

La lontananza del giornalista diventa l’immagine dello sradicamento e porta l’autore a sentirsi “strappato via da tutto”, “orfano e vedovo”. Il ritorno a casa è un momento delicato, un’occasione in cui “sentiva l’ambigua estraneità di quei viali pur familiari, dei palazzi conosciuti” perchè “Come sempre, la sua città sembrava volerlo punire in silenzio per l’abbandono. Come sempre, il ritorno aveva un filo arduo che bisognava dipanare con cautela, tra silenzi pudichi.”