Il contadino Gené

[1982]

“Erano le cinque e mezza. Come sempre, Boasso Genesio si svegliò, qualche secondo prima che la campana della chiesa battesse, lontana ma nitida, il tocco della mezz’ora. […] Era vedovo, e quasi ottantenne e da tutti chiamato Gené.”

Basterebbe questo incipit ad inquadrare il personaggio di Gené: il resto della sua personalità viene tratteggiato come un mosaico le cui tessere sono i dettagli della sua casa e le conversazioni con i commercianti del paese. Esemplari le descrizioni del fornello a gas traslocato vicino al letto “per risparmiar fatica e calore”, del televisore incappucciato perché “con il suo daffare in campagna non aveva tempo da sprecare in vanità” e lo scambio di battute finali con il barbiere ed il fotografo, a cui affidare il ritratto per la tomba e le sue ultime volontà.

Emerge una figura che ha saputo accettare e superare la solitudine che la vita gli ha inflitto: la vedovanza da una diecina d’anni verso una moglie di cui “non ne ricordava bene il volto”, “la figlia che viveva sposata in città”, “figli regalati alla patria perché morissero in due o tre guerre”, l’inseparabile Flip “un cane troppo giovane per un vecchio come Gené”.

Un unico cedimento gli viene provocato dalla visita di un commesso viaggiatore, passato a proporgli un macchinario innovativo: Gené, appena dopo aver comunicato il suo integerrimo rifiuto, “riparò in casa, accese il sigaro avanzato, risognò quei colori e quelle forme di macchina sul catalogo. Rimpianse di non avere dieci anni di meno.”

Genè ci lascia l’amara riflessione che “bisognerebbe avere due vite per affrontare tutto, per risolvere tutto, per raccogliere tutto il seminato ma l’umanità non lo sa, spreca il tempo e non ne fa tesoro”. Da lui “nato quasi nell’altro secolo” parte il severo monito: “Beati i giovani d’oggi, che trovano diritto in ogni desiderio. Noi abbiamo pagato anche per loro, e chissà se lo sanno.”